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24 Novembre 2025
Statuetta che rappresenta l'antico principio confuciano “non vedo, non sento, non parlo”.
La guerra in Ucraina, con la sua lunga durata, è ormai diventata rumore di fondo e in Sudan continuano a morire migliaia di civili, e nessuno ne parla più.
Sembra quasi che il dolore, se non ha una narrazione sufficientemente coinvolgente, non esista.
Ci rifletto da quasi tutta la vita, è qualcosa di più profondo:
La cronaca si confonde con l'intrattenimento, e anche la guerra è diventata contenuto: scrollabile, monetizzabile, digeribile. Il dolore ci raggiunge in forma di notifica, di post, di commento.
Ci tocca per un attimo, poi si dissolve, ma i
corpi restano. Le rovine restano. I bambini sotto le macerie
restano.
Quando si parla di Gaza, la discussione si sposta subito sul piano dell'opinione:
Come se la vita umana dovesse passare al vaglio
del dibattito. Come se la condizione di vittima dovesse essere
autorizzata da chi la osserva.
Lo spazio pubblico è stato colonizzato da una semantica di potere, i bombardamenti israeliani vengono raccontati come risposte militari, gli attacchi palestinesi come terrorismo.
Le parole non sono neutre. Scegliere come raccontare un evento significa anche scegliere da che parte stare, anche quando si finge imparzialità.
E poi c'è la spettacolarizzazione.
Ma la linea tra consapevolezza e consumo è
sottile, il dolore altrui rischia di diventare una componente del
nostro feed emotivo. Lo guardiamo, lo sentiamo, e poi
passiamo oltre.
Non tutte le vite, nel discorso pubblico, vengono percepite come ugualmente degne di essere piante.
Questo meccanismo non è solo linguistico. Ha effetti politici, diplomatici, militari.
In questo schema, l'Occidente si muove con una coerenza ipocrita:
La guerra in Ucraina ha avuto un impatto emotivo potentissimo all'inizio:
Poi, lentamente, è diventata una notizia tra le altre.
Quando non si vedono sviluppi immediati, quando
lo scenario si complica, l'opinione pubblica si ritira e i governi
con essa.
Decidere di non guardare è un privilegio, chi
vive sotto le bombe non ha il lusso dell'oblio.
E senza comprensione, non c'è nessuna possibilità
di trasformazione.
Ma la guerra non è semplificabile.
Non scrivo da un luogo di neutralità.
Credo che la Palestina sia una delle questioni politiche e umane più urgenti del nostro tempo. E credo che chi tace, oggi, stia scegliendo.
Non è obbligatorio sapere tutto, ma è necessario
non fingere di non sapere nulla. Non è obbligatorio esporsi sempre,
ma lo è chiedersi perché non lo facciamo.
In questo senso, il silenzio su Gaza è una forma di propaganda passiva.
Non so quale sia la soluzione. Ma so che non può esserci pace senza verità, né verità senza memoria...
E che ogni volta che passiamo oltre, rinunciamo a
una parte della nostra umanità. Le guerre infinite non sono solo
quelle che non finiscono, sono quelle che smettiamo di vedere.
Non possiamo cambiare tutto, ma possiamo decidere cosa tenere presente.
E oggi, ricordare è una forma di
resistenza...
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